Eccovi la recensione di ondarock a cura di Raffaello Russo.
Quali percorsi può intraprendere una band che, nel corso di un’attività ormai duratura, ha definito una propria fisionomia artistica unica e riconoscibile?
Qualunque sia la scelta adottata nel ristretto ventaglio di opzioni costituito dall’alternativa tra perseverare su un’impronta già consolidata e introdurvi variazioni più o meno significative, la band in questione andrà inevitabilmente incontro a disapprovazioni o, quanto meno, a un affievolimento dell’entusiasmo della critica e fors’anche dei suoi sostenitori.
È un po’ il destino dei grandi, “colpevoli” di aver già creato qualcosa di straordinario; ed è un destino al quale, di conseguenza, non sfuggono i Sigur Rós, che dopo i due autentici capolavori “Ágætis Byrjun” e “( )” sembrano voler percorrere entrambe le strade sopra delineate: la prima già messa in pratica nel fin troppo sottovalutato “Takk…” e la seconda adesso, in questo nuovo “Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust”, quinto album effettivo della band islandese.
Frutto della collaborazione – fortunatamente non troppo invasiva – con il produttore Flood, e registrato in diverse location in giro per il mondo, da Reykjavík fino a Cuba, “Con un ronzio nelle orecchie suoniamo all’infinito” (questa la traduzione del suo lungo ed emblematico titolo) è in realtà un album sospeso tra il passato e il presente della band, ma è anche una collezione di spunti artistici piuttosto diversi tra loro, sul cui effettivo seguito futuro si possono oggi soltanto costruire ipotesi. Gli elementi di novità sembrano tuttavia più numerosi dei retaggi di “conservazione”, così come testimonia la stessa struttura dell’album, che si può a grandi linee suddividere in tre parti, delle quali due presentano Jónsi Birgisson e compagni in vesti sonore più o meno nuove, mentre una tende a perpetuare le stesse caratteristiche di fascino e coinvolgimento emotivo tipiche delle precedenti opere della band.
La prima parte del lavoro è fortemente spiazzante, e mostra da subito i Sigur Rós sotto una prospettiva quasi del tutto inedita, ammantando le loro melodie soffuse ed eteree di una solarità inconsueta e di una vena pop mai così spiccata.
L’iniziale “Gobbledigook” si presenta con un drumming insistito e accenti ritualistici, che sottolineano nuovamente il legame della band con l’ancestralità islandese, a supporto di un folk-pop psichedelico, completato da cori sghembi e da una melodia solare e dall’effetto trascinante. In questo e nei tre brani successivi, i Sigur Rós dischiudono un mondo nuovo e colorato, ove le canzoni presentano forme definite e persino il cantato di Jónsi acquista una decisione e una linearità finora sconosciute, quasi come se il suo animo si fosse liberato di un peso e potesse cantare spensierato, sotto tiepidi raggi di sole. Strano a dirsi, sono queste le immagini evocate dal primo segmento del lavoro che, ad eccezione del passaggio acustico e cullante di “Góðan Daginn”, si attesta su toni giocosi e incalzanti, sublimati da “Við Spilum Endalaust”, popsong da far invidia ai Coldplay, contraddistinta però dal marchio di fabbrica dei Sigur Rós nelle sue progressive aperture armoniche e nell’esito magnifico di un finale tutto archi e vocalizzi.
Superato il comprensibile disorientamento dei primi brani, la parte centrale dell’album riporta invece al registro più classico della band, con tempi dilatati e con il consueto cantato etereo, dolcemente stillato su un avvolgente tappeto d’archi, il cui inesorabile e in parte prevedibile crescendo anticipa, in “Festival”, l’irrompere della batteria e dei cori e l’unico impetuoso finale elettrico presente nell’album. Sulla medesima scia di continuità, ma secondo modalità ben diverse, si colloca la parallela “Ára Bátur”, brano pacato e toccante, con la sua sottile malinconia che corre sul pianoforte compassato ed emozionante di Kjartan Sveinsson per poi sfociare in una romantica elegia, innalzata al cielo dalla solennità anthemica degli archi.
È il preludio al terzo segmento del lavoro, quello più intimo e raccolto, in cui Jónsi assurge a protagonista assoluto, dimostrando con la semplicità di voce, chitarra acustica e pianoforte – inframezzata dal pensoso interludio di ambient orchestrale “Straumnes” – che l’incredibile capacità comunicativa innegabilmente riconosciuta ai Sigur Rós, può fare a meno persino delle travolgenti cavalcate elettriche per conseguire un effetto parimenti “emotivo”. Non troppo distanti dalle riletture acustiche comprese in “Heim”, da questi ultimi brani “da caminetto” traspare, infatti, una pienezza di sentimento ancora una volta unica, che consacra il ritrovamento di quell’indole notturna e di quella fragile malinconia abbandonate, ma solo per un attimo, nella prima parte dell’album.
La struttura tripartita del lavoro, tanto palese da essere stata certamente congegnata di proposito, rispecchia senz’altro il processo di trasformazione in atto, tra passato, presente acustico e ipotizzabile dimensione pop futura. Altrettanto studiato anche dal punto di vista compositivo, “Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust” riesce tuttavia a bilanciare la prevalente levigatezza dei brani con l'istinto e l'abituale forza interpretativa che, anche in quello che potrebbe essere reputato come un classico album di transizione, regala almeno un brano da amare e ricordare per ogni terzo dell'album. Ben venga, allora, questa transizione, se concretizzata in fulgidi esempi di versatilità del calibro di “Við Spilum Endalaust”, “Ára Bátur” e “Fljótavík”, e più in generale nell'ennesima, (superflua!) dimostrazione che la magia irripetibile, creata sin qui dai Sigur Rós, non risiedeva soltanto nella chitarra suonata con l'archetto e nelle pur mirabili impennate emotive.
(21/06/2008)
voto: 7/10
http://www.ondarock.it/recensioni/2008_sigurros.htm