Sto sistemando pian piano cinque candeline striate fucsia-fiordilatte che avevo avanzato per la torta di compleanno di mio nipote. Ne avevo 30 e il cucciolo solo 8. Le epigono sulle punte di un porta candeline a forma di stella.
L'astuta donna si assicura un lumino di Dario perché non vuole riempirsi le dita di cera.
I tecnici stanno finendo di preparare il palco. Spero che riescano a togliere quella "leggermente" fastidiosa distorsione dei bassi dalla cassa che lambisce le nostre trombe di Eustachio da ore.
Siamo parecchio davanti, forse in terza fila. Davanti un nutrito gruppo di ragazzi del sito capitanati dal citato Sigur di loto. Nel momento in cui entrano, parte quella specie di carillon di I Gær e subito girano le rotelline di mille accendini per accendere la coreografia mentre le braccia si allungano con moccoli di cera da vitalizzare.
La sensazione è sempre la medesima quando mi trovo di fronte a questa band.
E’ come essere in un contenitore di plexiglas con gli oblò, in una stanza asettica, gli uni accanto gli altri, esserini prematuri che imparano a respirare e a spalancare gli occhi prima alla luce artificiale e poi al sole. Beh la schiena dolorante mi ricorda che di prematura c’è solo la mia vecchiaia e lasciamo stare la realtà che di asettico non ha nulla ma odora di un delicato profumo di pesce marcio che esala da sotto le scarpe.
Per Dio, ho i SR di fronte, non ha piovuto un cazzo, sono baciato dalla fortuna e mi rigenera una leggera brezza che si muove a tempo orchestrata dall’archetto di Jònsi. Il palco è avvolto dal fumo artificiale e i nostri sono vestiti di scuro. Cerco di scrutare i loro volti mentre parte Vaka. Goggi è serio, più serio del serio. Orri ha la solita simpatica espressione di suricato fuori dalla tana, sempre all’erta e con quella delicata aria di chi attende un imminente catastrofe. Passerà tutto il concerto a farsi sistemare il sound con il tecnico che avrà fatto spola una decina di volte dalla pedana della batteria/armonium ai lati del palco. Jònsi invece sorride. L’ultima immagine ferrarese che ho di lui era altrettanto sorridente. Vocalmente sta benissimo. Tuttavia avverto che c’è qualcosa che non va. Non vorrei essere frainteso: non è una questione di Kjarri. Sento delle imprecisioni. Ma scaccio il pensiero. Dev'essere colpa di quella dannata cassa. Sicuramente.
Ny Batteri. Palco scuro. Noto ora che i pannelli per le immagini non sono tirati bene e sono pieni di onde. Delle lampadine non alogene sono piazzate ad altezze diverse e piantate su delle aste a terra come lampioni di inizio secolo. Lo zigzag di tungsteno all'interno dei bulbi di vetro si riscalda e accompagna la musica modulando l’intensità della luce. L’alternarsi è suggestivo per quanto ecologicamente scorretto
. Fari di luce bianca investono da dietro i ragazzi proiettando ombre e movimenti. Sono dannatamente dentro e dannatamente fuori da questo castello mentre la tromba disegna stradine di luce nel cielo. Chiudo gli occhi e muovo la testa. Ma permane una distonica sensazione: dev’essere ancora la schiena in equilibrio tra la pedana di compensato e la sabbia sotto le caviglie. Ma ormai sono beatamente imbrigliato dall’allure scaligero-icelandic.
S-G-E. Già. Non posso non dare uno sguardo lì davanti. Un ragazzo col collo arrossato da ore di attesa, stringe le guance e accortoccia la bocca a tempo mentre Jònsi appende la sua anima sull’asta del microfono con i suoi “e..tjùùùù,tjùùùù,tjùùùù” . Un color pesca ammorba il tutto di una dolcezza disperata.
Gocce d’acqua cadono sulla tastiera di un pianoforte. Sæglópur. Fasci di luce azzurro boreale sparati dai lati. Allungo la mano sul viso della donna. Sento qualche lacrima inumidire i bordi degli occhi. Vorrei essere capace di fare colpo anch’io su di lei come quel dannato trio
lassù. E non stanno certo performando al massimo. Ora ne sono certo. Ogni tanto sento dei buchi. Forse sono quelle piccole frazioni pre registrate. Forse qualche cosa di elettronico che s’insinua. Forse hanno voluto de-kjartizzare l’arrangiamento. Ma qualcosa di diverso c’è. Siamo sempre nel regno magico dei Sigur Ros intendiamoci ma è come rendersi conto che stai vedendo un film che sai poter essere realtà. Per ripristinare la sensazione dovrei farmi un jack daniels con Tom Barman dei Deus se me ne avesse avanzato uno… quell’alcolizzato.
Viðar …. Loftárása. Mi accorgo in maniera compiuta delle scenografie proiettate. Sui teli bianchi mal tirati si stagliano le finestre di una casa. E noi siamo chiusi dentro … almeno finchè non appare una porta bianca dischiusa. E’ perfetto per descrivere quello che si è veramente qui e quello che forse non siamo là. Fuori da quella porta. E quel pianoforte che dardeggia il percorso fino all’uscio non è propriamente una danza nuziale. Non c’è una sola certezza fuori di qui. Un precipizio forse. E allora prendiamo il ns bambolotto decapitato e speriamo che ci crescano le ali sulla schiena. Sento veramente che possono farti volare al crescendo violinistico-musicale. E con lo sguardo poter spaziare dall’alto contemplando quel laggiù dove potresti sfracellarti. No, non sono sono fatte di cera come le bastarde candele coreografiche che si sono sciolte sui peli del braccio
.
Arriva il momento 'crew clap your hands and stomp your feet' che non è per forza il momento clou. Hoppípolla & Með Blóðnasir. Le pareti del palco vengono vergate da una moltitudine di glittering lights che si infrangono ovunque attorcigliandosi agli strumenti. La batteria la fa da padrona. E i cori delle fanciulle violiniste danno il meglio di sé. In effetti non sono sembrate proprio musicalmente all’altezza delle Amiina per quanto il mio giudizio sia di parte. Hanno sometimes cannato i tempi e in alcuni tratti sono sembrate incerte. Nel territorio dell’eccellenza un’esecuzione insicura si avverte.
E tutto questo appare chiaro in Olsen Olsen. Immersi in un bosco sovrastato da un’aurora boreale e luminescente. Il flauto che pennella la melodia equivale al mio cinghiale quando ritinteggio la cucina cercando di non sbrodolare le mattonelle sopra il secchiaio e non al Michelangelo che delinea i contorni delle dita di Dio che sfiorano quelle di Adamo. E’ sempre Olsen Olsen ma il verde giallo del sottobosco diventa color limone Nelsen Nelsen piatti. Una costellazione di stelle color ghiaccio opalizza l’universo alle spalle dei SR. La voce di Jònsi, illuminata da un faro azzurro elettrico, è cristallina come arrivasse da Plutone. Viola l’intimità di ognuno anche quando si blocca per vari secondi e ogni pensiero scivola nel burrone sconosciuto delle ns più recondite profondità. La cera sciolta mi si stacca dalla pelle alzata dai peli che si raddrizzano. Le luci iniziano a esplodere in fasci come sparate da un cannone intergalattico al salire del sound. In stile Inni, appaiono le riprese in bianco e nero in diretta sulle mani di Goggi e sull’incedere sincopato del drumming di Orri e la pace interiore diventa tumulto ed assalto. Il rosso ciliegia e l’azzurro raggi gamma spazza via ogni cosa. Sono sempre i Sigur Ros. Andrea, sono sempre i Sigur Ros. Ma perché mi manca comunque la barba di Kjartan?.
Un cielo di nuvole bianche sopra un mare di cedrata preannuncia l’arrivo del vascello di Varúð . L’inizio è confuso e con alcuni errori nell’esecuzione ma a metà circa si assesta e diventa terribilmente affascinante. Sono rapito da una barca volante e sogno di essere disteso su uno sdraio sul ponte di quella nave a prendere quel sole artificiale che tra poco smetterò di prendere. Quando uscirò da questa scatola di plexiglas con l’oblò. Intanto muovo le gambette e le braccia in alto, catturando nell’aria le prime sconosciute sensazioni che già diventano ricordi.
Parte Hafsòl. Rimangono le immagini in presa diretta dal palco mentre un caldo bianco investe la band da più lati dal basso. Le immagini sono iper esposte e i contorni diventano iridescenti come stalagmiti sotto gocce di pioggia minerale. I violini pizzicati mi muovono i muscoli delle gambe come stessi salendo una scala immaginaria. E so già che i pioli stanno finendo.
La pausa prima del finale. Guardo gli occhi della donna e so che hanno fatto centro. Fanno sempre centro. Ma ci sono tante sfumature di centro. Per lei è la prima volta.
Rientrano.
Ekki mukk vibra del risveglio di un fiore che si schiude al mattino. Di un mattino che presto sarà sera. Il finale e i vari ùùùùùùù fanno traballare le membrane della solita cassa sfigata ma non mi disturba più nulla. Ho aperto l’oblò e vedo controluce le impronte delle mie mani sul plexiglas. Sto arpionando l’uscita.
E il tappeto sonoro di Popplagið accompagna l’arrampicata. Il fondo diventa bianchissimo, striato da macchie nere che scivolano orizzontalmente come gocce di pioggia sui finestrini laterali di un auto che corre. Jònsi e la sua voce. Impeccabili . So che dopo questa calma apparente e forzata esploderà il palco. So che appena lascerò questa coperta di delicate melodie soffierà la tempesta dell’incertezza e della scoperta. E faticosamente capirò dove finisce il sogno ed inizia la realtà. Ho già fuori entrambi i piedi da quella scatola trasparente che ora assomiglia ad una cassa da morto. Mi tengo ancora stretto al bordo prima di spiccare il primo passo. La batteria di Orri mi accompagna. I piatti si chiudono e si aprono a tempo come porte scorrevoli impazzite. Jònsi (s)offre (co)i suoi infiniti daun tche wún ….Daaaaaaaun tcheeeeeee wún. ….Daaaaaaaun tcheeeeeee wún. E sento alzare la pressione.
Non ora. Non ora. Non ora.
ORA.
C’è un momento che dura un tempo indefinito in cui la batteria sembra sparire anche se in realtà c’è. Prima di riesplodere. In quel momento non sei più fermo. Non stai nemmeno camminando. Sei nella terra di mezzo fatta di aria e emozioni. Dove si inanellano immagini di quello che eri prima ancora di essere, di quello che potevi essere e di ciò che non sarai mai e infine atterri … e scopri che quello che sei, è ciò che hai sempre saputo di essere.
Alla prossima ragazzi.
Scusate la lunghezza e gli eventuali errori nella scaletta. Li ho ricostruiti dalle foto. Non sono capace di recensire. Solo di ricordare.