Quando la generation cute sembra aver scoccato l’ultima freccia arriva il nuovo gruppo giocattolo abbacinato dal sole tra suonini e animaletti. Pensate alle Cocorosie country (ma senza cinismo). A Sufjan Stevens nell’isola dei geyser. Irresistibili Seabear. Orsi di mare e di terra. Terre fredde e lingue calde. Ti limonano nell’orecchio quando meno te le aspetti, strappano un ricordo e non escono più dalla testa. Vengono dalla casa di chi hai pensato di lasciar stare per un po’. Ritorni a casa e non vuoi uscirne più. Ci ritrovi la freschezza e l’immediatezza. Respiri aria senza nicotina e biosssidi. Parliamo dei Seabear, o meglio di Seabear, un ragazzo con un contratto di tre dischi con la Morr che rimetterà in sesto la label a suon di carezze british folk e intarsi chamber, appeal da orchestrina sulle nuvole e tanto pop al sole nella miglior tradizione indie. A cesello: le canoniche carinerie (campanellini, panna elettronica) della Generation Cute (Krúttkynslód in islandese), quella che ha reso inconfondibile il sound di molte band attuali, dagli Architecture In Helsinki fino ai Parenthetical Girls, passando per certo sound islandese. Perché, chiaro, vengono da Reykjavik i ragazzi della crew, e non sono né i nuovi Múm (anche se Orvar ospite qui è membro di là), neanche i nuovi Sigur Rós (anche se Eiki suona lì e qua), o i cugini dei Benni Hemm Hemm (con Ingi e Dori anch’essi divaricati). I Seabear sono sostanzialmente la creatura di Sindri Màr Sigfùsson, occhi azzurri e classe ottantadue giù di lì, più arrangiatore che autore e innamorato del sempiterno spirito Sixties (Drake, Dylan che riecheggiano) e di Waits (anche non rientrerà nel sound), in particolare di certo solitario country pop, e dell’anima più gentile delle orchestrine da strada come no (Sufjan Stevens, Jens Lekman), del sound dei vecchi vinili e delle registrazioni casalinghe dove un sacco di gente suona davanti a un unico microfono postato ad hoc sul comodino.
Il Re della convenienza è, ancora una volta, il sapore di casa, il background americano (la fisarmonica a bocca, il violino a volte usato a mo’ di feedle band, il banjo) e soprattutto quello classico europeo (gli archi, la compostezza arrangiativa), un’impronta classica e un poco di magico Newsom saldamente e confortevolmente popular. Prendete il nuovo singolo Hands Remember contenuto nell’esordio
The Ghost That Carried Us Away, indiepop in triangolazione: melodia geyser placida e vaporosa, drum machine canonica e un violino in un sottobosco di polverine con coda cameristica. È un sound che t’avvolge eppure resta racchiuso in un proprio mondo, un puzzle fatto di dolci giunture che s’annodano alla melodia.
Prima del presente che vi raccontiamo, la storia non è poi lunga. C’è un album: I’m Me On Sundays disconosciuto e disponibile (di sgamo) solo su peer to peer, come ci confessa Sindri via mail. Passiamo dunque al 2004 quando gli viene chiesto di aprire per il concerto berlinese dei The Books in quella che per lui è la prima esperienza fuori porta. Il ragazzo si porta due amici con sé ed è a quel punto, in tre, che il progetto parte. Loro sono Guggý (Gudbjorg Hlin Gudmundsdòttir), una violinista d’estrazione classica, e Orn, chitarrista sereno e leggero. Assieme il trio dà vita a Singing Arc EP (Smekkleysa, 6.0/10), una manciata di folk song rigorosamente lo-fi immerse in un caratteristico contorno di povere raffinatezze. Nulla di imprescindibile ma il portamento, come lo si sente in Singing Arc c’è. C’è quella voce da alternative countryman surreale, una leggerezza profonda à la Drake e il guizzo di un Barrett (“You fall asleep on the phone / Cause the spiders won't leave you alone / Now there's gravel in my head / Birds sleep in my bed”). C’è inoltre, e cattura, il canto in dormiveglia quasi Sparklehorse in I Need A Home For My Hands And Head, oppure il pianismo solenne (ma dimesso) di Robin Sparrow, oppure ancora la posa un pochino prosaica di un Lekman/Wainwright in Drunk Song (che culmina in un calcolato rumorismo). Bozzetti in divenire certo, eppure un qualcosa che l’anno successivo – il 2005 – porta a un 7’’ split con gli amici newyorchesi Grizzly Bear per il capitolo “I” come “Indie” della collana Alphabet Series della Tomlab. Di seguito arrivano delle date in giro per l’Europa e infine l’attuale esordio con una lineup, nel frattempo, cresciuta a sei elementi. Non si tratta di un ensemble, dichiara Sindri “Lavoro praticamente da solo”, afferma il cantautore, “La band non suona mai assieme. I ragazzi vengono in studio e poi faccio della loro partecipazione un qualcosa. Così è sempre one-on-one, uno su uno. E il mio modo di controllare tutti per poi missare e masterizzare ancora in perfetta solitudine”. E in
The Ghost That Carried Us Away a catturare è proprio la coesione e la varietà dei brani.
Fonte:
sentireascoltareRecensione di
ondarock