Recensione di Fulvio Paloscia su Repubblica.it
A me è sempre piaciuta la musica capace di trascinarti un universi paralleli, in mondi a parte non tanto per evocazione “epica”, ma per la forza innovativa del suono, per la sua peculiarità. Quando la musica, una musica, sospende il tempo e modifica lo spazio, quando ti lascia sospeso in un non tempo, in un non spazio, in qualcosa che è lì intorno a te, dentro di te, allora accade un miracolo. Così, d’acchito, mi viene in mente qualche nome: Cocteau Twins, Japan, Anthony & The Johnsons, Radiohead. Quando li ascolti è come se tu fossi dentro loro, e non nel luogo in cui ti trovi. C’è una compenetrazione perfetta, uno scambio osmotico di lunghezze d’onda (e non di sudore e fisicità: quello è il bello, ad esempio, di Bruce Springsteen, degli U2), Questo miracolo è accaduto ieri sera a Boboli con il concerto dei Sigur Ros. Mentre ascoltavo le meraviglie impetuose e struggenti con cui mi travolgevano tra archi e fiati, mentre mandavo indietro a malapena qualche lacrimuccia e inghiottivo come meglio potevo qualche singhiozzetto di cuore e di stomaco, riflettevo ad un articolo che avevo letto il giorno in prima in cui si faceva il (solito) parallelo tra la loro musica e la terra magica misteriosa blah blah blah d’Irlanda, pensavo che in fondo questa è una banalità. E’ vero che c’è un imprinting di ricerca, di coralità, di studio del suono, di curiosità strumentistica che accomuna gli artisti che arrivano da laggiù, a cominciare da Bjork, ma i Sigur Ros costruiscono altre case, altri tetti, altri alberi, altri cieli, altra aria, altra pioggia. Altri noi. Ed è allora che la musica diventa una cuccia che non vorresti abbandonare mai, un rifugio, un riparo, un letto comodo dove fare la stannchezza a brandelli, un pasto caldo offerto da una mano materna, una mano nella mano, una carezza sul braccio.
Ed è bello vedere quando quella musica riempie di luce la persona che ami.
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